lunedì 18 dicembre 2017

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ULTIMO AVVISO
mi rendo conto che sto rompendo
e se non vi va di comprarvi un libro
non ci posso fare niente...
ma sono solo 9,90 (dollari? boh)
e me ne entrerebbero in tasca più di 7.00
Non sono pochi
potrei prendere il volo
(sai, qui sono molto gentili ma cominciano a dare segni VISIBILI di insofferenza...) ehehehehe
 
 



come NON aprire una gelateria a Teheran
Postavo da tempo le mie noterelle satiriche col nome IL GELATAIO DI CORFU'.
Un giorno mi capito' l'occasione di un viaggio a Teheran con l'addetta alla sicurezza dell'Ambasciata greca. E sono partito portando con i mobili della mia amica, due macchine per fare il gelato. Questo è il racconto di tutto quello che si deve fare per (non) aprire una gelateria a Teheran...
 
 

Aldo Vincent
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domenica 17 dicembre 2017

"E' vero, i social possono far male". Prima (parziale) ammissione di Facebook

"E' vero, i social possono far male". Prima (parziale) ammissione di Facebook
Due ricercatori di Zuckerberg, David Ginsberg e Moira Burke, contestano le critiche recenti. Ma riconoscono che "un uso passivo è pericoloso". Il rimedio? "Interagire di più attraverso il network"
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ROMA - Non è un’ammissione, ma in qualche modo le somiglia. In un lungo articolo firmato da  David Ginsberg e Moira Burke, entrambi ricercatori di Facebook, si affronta il tema dell'effetto negativo che potrebbe avere sulle persone il social network più frequentato al mondo. Le voci critiche ultimamente si sono moltiplicate e l’azienda ha deciso di rispondere. Nell’era dominata degli smartphone, dove Facebook regna, l’accusa e che si rischia l'isolamento e una vita senza più alcun vero confronto. “Connessi ma soli” scrisse la psicologa Sherry Turkle nel 2012, quando nelle librerie uscì il suo Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other.
Una posizione tornata di moda da quando gli attacchi hanno cominciato ad arrivare anche da figure che all’interno della multinazionale di Mark Zuckerberg rivestono o rivestivano cariche importanti. Chamath Palihapitiya, assunto nel 2007 e diventato vice presidente, pochi giorni fa ha parlato di “strumenti che stanno distruggendo il tessuto sociale della società”. Salvo poi fare parziale retromarcia. E prima di lui Sean Parker, fondatore di Napster ed ex presidente del social network di Zuckerberg, aveva sostenuto che Facebook sfrutta le fragilità psicologiche delle persone. L’apocalittico Antonio Garcia-Martinez, anche lui ex manager di Facebook e autore di un saggio sorprendente intitolato Chaos Monkeys, ha più volte ripetuto che l'azienda mente sulla sua reale abilità di influenzare le persone.

David Ginsberg e Moira Burke alcune di queste tesi le espongono e ne espongono altre, quelle del sociologo Claude Fischer ad esempio, che sottolineano invece i benefici che la tecnologia ha portato. In estrema sintesi i due ricercatori spiegano che il problema sta nel consumo passivo e snocciolano tutte le funzioni che la compagnia ha aggiunto nel tempo per arginare la tendenza all'isolamento riscontrata in certi casi. “Stiamo lavorando per rendere Facebook un mezzo per interagire e meno un luogo dove passare il tempo”, dicono. E ancora: “Di recente abbiamo investito un milione di dollari per capire meglio la relazione fra media tecnologici, crescita dei giovani e benessere”. Perché alla fine, concludono, tutto dipende da come la tecnologia viene usata. Quindi dipende dalle persone e non da Facebook.
"E' vero, i social possono far male". Prima (parziale) ammissione di Facebook
Mark Zuckerberg, a capo di Facebook
Difficile che basti a chetare le acque. Come notano sul New York Times, dalle elezioni presidenziali di fine 2016 si è rotto qualcosa: l'immagine di Zuckerberg e compagni non è più quella di un tempo. Il ruolo giocato dal social network come mezzo di propaganda prima, avendo collaborato attivamente con il team digitale di Brad Parscale al servizio di Donald Trump, l’essere sotto accusa per l’elusione delle tasse poi e ora la sua presunta pericolosità che spingerebbe all’isolamento, sono i segni di un anno difficile. E l’articolo di David Ginsberg e Moira Burke dimostra che a Facebook lo sanno bene. 

sabato 16 dicembre 2017

NET NEUTRALITY

Chip Somodevilla via Getty Images 
 
Una dichiarazione di guerra quella che Trump ha lanciato a tutto il mondo della rete. La rottura della net neutrality, con il ripristino dei pedaggi ai caselli sulle autostrade dell'informazione, decisa dalla Fcc riporta indietro di 30 anni le lancette dell'innovazione. Rimette soprattutto al centro del mercato le grandi multiutility dei condotti, le vituperate Telecom che riprendono in mano il bandolo della matassa. Non solo le tradizionali utility dei cavi come AT&T, Verizon, in europea France Telecom e Deutch Telekom, in Italia Telecom Italia e Fasteweb ma anche le nuove aziende dei servizi a rete, come per esempio nel nostro paese Enel e le multiutility metropolitane, entreranno nel gioco sbizzarrendosi con le formule di marketing e le offerte commerciali. Questo inevitabilmente trasformerà la rete in un multipiano, in cui ai primi livelli, quelli più accessibili ci saranno i market place delle aziende di servizio, appunto le Telecom e affini, poi le offerte commerciali di imprese che pagano i pedaggi, infine, ai piani più lontani il flusso dei contenuti sociali.
È un ribaltamento cartesiano, una capriola all'indietro, che uccide qualsiasi nuova opportunità per individui e start up che vogliano affacciarsi sul mondo.
Cosa faranno i grandi brand di Internet? Come si muoveranno gli Ott? Accetteranno la battaglia e impegneranno i loro capitali per una grande guerra legale che imbrigli le ambizioni restauratrici della Casa Biasnca, giocando a rendere la rete una scacchiera, con zone franche che accerchino e marginalizzino quelle commerciali? Oppure, come sempbra, si acconceranno a ricavare il massimo dalla loro rendita di posizione, limitandosi a gestire la collocazione strategica e la potenza tecnologica accumulata, godendo della limitazione per i nuovi incumbent che riduce la loro concorrenza e la necessità di mantenere alta la linea dell'innovazione proprio per battere ogni velleità dei nuovi entranti?
Google, Facebook, Amazon a questo punto non possono più nascondersi dietro la retorica del "don't be devil", devono dichiarare da che parte staranno: con la rendita o con l'innovazione?
Così in Europa la politica e le istituzioni. Questa è una grande occasione per rimettere in moto un modello europeo della rete: nuovi servizi, nuove culture, nuova libertà, strappando all'altra sponda dell'Atlantico quella bandiera di libertarismo competitivo che aveva conquistato i cuori prima delle menti dei giovani innovatori.
L'Uw ora deve battere un colpo, e aprire la battaglia delle idee per creare uno spazio pubblico e innovativo nel cuore di Internet: sia l'Europa ad assediare il centro del mercato americano, e convogli nelle zone libere creatività e imprenditorialità. E sia l'Italia il paese che prema in questa direzione. Nella prossima campagna elettorale sarebbe importante che i partiti si qualifichino anche rispetto a questa prospettiva: quale strategia per la rete? Quale politica industriale e culturale per il mondo digitale? Quale bussola deve avere un paese che per la sua vocazione turistica e artigianale deve rivendicare la massima libertà di accesso e di autonomia strategica. Chi sarà il partito della libertà in rete? Chi vorrà declinare algoritmi e provider per costruire oggi una nuova mappa di sviluppo autonomo su una rete che sembrava solo degli altri? Come sempre la storia ricomincia proprio dove sembra finire.


giovedì 14 dicembre 2017

FAKE NEWS

La caccia alle Fake News, una censura in mano ai dilettanti

DI DANIELE SCALEA
facebook.com
Il caso dei presunti caccia-bufale del sito Butac: persone non qualificate che ricevono un patrocinio istituzionale e un plauso censorio. Il dilettantismo che piace a Boldrini nella sorveglianza del web.

L’americana Kimberly Jones rende pubblico un video con lo sfogo del figlio Keaton, bullizzato a scuola. Il video attira molta attenzione e solidarietà.

Qualcuno però trova un paio di foto di Kimberly Jones in posa con la bandiera confederata e ne inferisce che i Jones sono razzisti – sottinteso: “Fanno bene a bullizzare il figli
Kimberly Jones si difende dicendo che erano solo scatti ironici.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di Butac, il sito di sedicenti cacciatori di bufale tenuto in palmo di mano da Laura Boldrini.
Michelangelo Coltelli, uno degli “esperti” con cui la Boldrini si vanta di combattere le “fake news”, firma col suo noto pseudonimo “maicolengel” una “perizia” il cui esito è: 
“E’ curioso notare come una mamma bigotta e xenofoba sia infastidita da come gli altri trattano suo figlio, senza che faccia autocritica su come lei tratta gli altri”.
A parte che da un “fact-checker” ci si aspetterebbe una risposta sulla veridicità o meno di una storia, e non una riflessione morale; ma ci si chiederà su quali fatti si basi l’accertatore di fatti, e su quali fonti si basi il cacciatore di bufale?
Essenzialmente su fonti come “molti” e “qualcuno” che avrebbero trovato non meglio precisati contenuti di “xenofobia ed estremismo religioso”.
Scorrete l’articolo e vi sfido a trovare fatti e fonti più precisi e dettagliati di questi – come invece sarebbe stato richiesto, dal momento che la grande stampa si limita a citare le foto confederate ma non questi altri presunti contenuti e commenti.
Forse per corroborare questo ben misero approfondimento, vengono citati un paio di brani da un articolo di un sito connotato politicamente (attivismo afro-americano di estrema sinistra), che non dà nessun fatto nuovo.
In compenso la traduzione è rozza, e qualcuno nei commenti rileva gli errori e, soprattutto, l’involontaria ironia avendo “maicolengel” aperto l’articolo con un pistolotto su come lui in famiglia comunichi in inglese. 
La risposta del diretto interessato è (proprio così):
“vedi scrivo circa 2/3 articoli al giorno, e spesso lascio che il lavoro di traduzione lo faccia Google Translate, correggendo se mi resta il tempo. I 2/3 articoli che scrivo sono caricati a notte fonda, e non sempre rileggo le traduzioni”

Insomma: il “fact-checking” che dovrebbe scovare le bufale e dirvi cosa sia vero e cosa sia falso è fatto da persone non qualificate, al ritmo di 2/3 articoli al giorno (calcolate voi quante ore dedicate a ciascuna “ricerca della verità”, considerato che non lo fanno a tempo pieno), usando Google Translate e rileggendo solo se resta il tempo.
E questo “approfondimento” è un esempio di quali risultati ci si possa attendere, ed è emblematico del perché vada combattuto qualsiasi tentativo di conferirgli uno status privilegiato rispetto a ciò che in realtà è: una presa di posizione di una persona comune.
Daniele Scalea
Fonte: www.facebook.com
Link
13.12.2017

visto su http://megachip.globalist.it


Aldo Vincent
 nemmeno questo è un libro

mercoledì 13 dicembre 2017

FACEBOOK CI DEVASTA...

I SOCIAL CI HANNO DEVASTATO - VUOTA IL SACCO L'EX VICE-PRESIDENTE "PENTITO" DI FACEBOOKCHAMATH PALIHAPITIYA: “ABBIAMO CREATO UN SISTEMA DI GRATIFICAZIONE A BREVE TERMINE DI LIKE E FEEDBACK, GUIDATO DALLA DOPAMINA, CHE STA DISTRUGGENDO IL MODO NORMALE IN CUI LA SOCIETA' FUNZIONA. I SOCIAL SONO RIUSCITI A SFRUTTARE UNA VULNERABILITA' NELLA PSICOLOGIA UMANA" - LA RISPOSTA DELL'AZIENDA 
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CHAMATH PALIHAPITIYA è stato tra i pionieri di Facebook, e dal 2007 ne è stato vicepresidente responsabile della crescita del numero degli utenti. Ma ora, nel corso di una lezione a Stanford, se ne dice pentito, a tal punto da raccomandare alle persone di prendere una pausa dai social.

chamath palihapitiya 2 chamath palihapitiya 2
 
“abbiamo creato un sistema di gratificazione a breve termine di like e di feedback, guidato dalla dopamina, che sta distruggendo il modo normale in cui la società funziona: non sono cresciute né le discussioni, né la collaborazione. Ma solo la disinformazione e la mistificazione della realtà. E quello che dico non è un problema solo americano, non ha niente a che fare con i post della propaganda filorussa, ha a che fare con tutto il mondo”.

Palihapitiya ha detto di sentirsi “terribilmente in colpa” per aver contribuito a creare Fecebook. Tuttavia ha lanciato i suoi strali all’intero sistema dei social network, e, anzi, a tutto l’ecosistema online.
CHAMATH PALIHAPITIYA 6 CHAMATH PALIHAPITIYA 6

Nel corso della lezione Palihapitiya ha raccontato di un incidente avvenuto in India, dove falsi messaggi su rapimenti condivisi su WhatsApp hanno portato al linciaggio di sette persone innocenti. Da parte sua, dice, cerca “di usare Facebook il meno possibile”, e che ai suoi figli “non è permesso usare quella merda”.

La voce di Palihapitiya non è la prima che si leva a criticare il sistema: Sean Parker, uno dei primi investitori di Facebook, ha affermato di essere diventato un “obiettore di coscienza” sui social media e che Facebook e altri sono riusciti a “sfruttare una vulnerabilità nella psicologia umana“. Un ex product manager dell’azienda, Antonio Garcia-Martinez, dice che Facebook ha mentito sulla sua capacità di influenzare le persone sulla base dei dati che raccoglie su di loro, e ha scritto un libro, Chaos Monkeys, sul suo lavoro presso l’azienda.

CHAMATH PALIHAPITIYA 8 CHAMATH PALIHAPITIYA 8
 
Nel suo discorso, Palihapitiya ha criticato non solo Facebook, ma l’intero sistema di finanziamento della Silicon Valley. Ha detto che gli investitori pompano denaro in “imprese schifose, inutili, idiote”, piuttosto che affrontare problemi reali come il cambiamento climatico e le malattie. Palihapitiya gestisce attualmente la sua società di VC, Social Capital, che si concentra sul finanziamento di aziende in settori come l’assistenza sanitaria e l’istruzione.

La risposta di Facebook non si è fatta attendere: un portavoce della società ha risposto ai commenti critici dell’ex dirigente, dicendo che Facebook “era una società molto diversa” durante il periodo in cui lavorava lì.

Ecco la risposta completa:
chamath palihapitiya chamath palihapitiya
 
“Chamath non è a Facebook da oltre 6 anni. Quando Chamath era a Facebook, eravamo focalizzati sulla costruzione di nuove esperienze sui social media e sulla crescita di Facebook in tutto il mondo. All’epoca, Facebook era un’azienda molto diversa e, crescendo, ci siamo resi conto di come anche le nostre responsabilità sono cresciute. Prendiamo molto seriamente il nostro ruolo e stiamo lavorando duramente per migliorare. Abbiamo svolto molto lavoro e ricerca con esperti e accademici esterni per comprendere gli effetti del nostro servizio sul benessere e lo stiamo utilizzando per lo sviluppo del nostro prodotto. Stiamo anche facendo investimenti significativi in persone, tecnologie e processi e, come ha detto Mark Zuckerberg, siamo disposti a ridurre la nostra redditività per garantire che vengano effettuati gli investimenti giusti”.

chamath palihapitiya 4 chamath palihapitiya 4


 NEMMENO QUESTO E' UN LIBRO, 
MA UN ESPEDIENTE DELL'AUTORE PER SPIEGARVI 
MCLUHAN 50 ANNI DOPO...

 
Aldo Vincent
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MENZOGNE

Menzogne e falsità


12/12/2017 10:30 CET


 


Potrebbe essere il titolo di un libro, come "Orgoglio e pregiudizio", "Delitto e Castigo", o di una pièce teatrale alla Eduardo Scarpetta, tipo "Miseria e Nobiltà".

Invece è la cronaca di questi giorni: è deflagrata improvvisamente - dopo essere rimasta a lungo sotto traccia - la questione delle fake news, come in gergo si definiscono le notizie inventate e prive di fondamento diffuse dai media, in particolare su web, tramite social network. Giusto per intenderci sui termini: le fake news sono notizie false e menzognere, in forma di scritti, immagini, fotografie, più spesso un cocktail esplosivo di tutte queste forme, messe scientemente in circolazione nella rete per creare disorientamento, atteggiamenti ostili, polarizzazioni di emozioni e sentimenti anti, prevalentemente, o pro qualcuno/qualcosa, in ultima analisi anche con l'intento di spostare consensi elettorali da una parte a un'altra.


Questa definizione - più ancora dell'altro termine gergale "bufale" - dovrebbe mettere in chiaro le conseguenze, anche penali, che menzogne e falsità, quando hanno valenza diffamatoria, cioè quasi sempre, possono produrre.


Improvvisamente, in realtà, è un termine improprio. Sono almeno due anni che leggiamo con preoccupazione questo genere di notizie, questa per esempio è del 22 marzo 2014.  

Walter Quattrociocchi, Gianni Riotta
Tra le notizie recenti che, magari, vi sono sfuggite potrebbe esserci la legge approvata dal Senato su proposta del senatore Cirenga: 134 miliardi di euro per trovare un posto di lavoro ai parlamentari non rieletti. http://www.lastampa.it/2014/03/22/esteri/le-bufale-e-lera-della-grande-credulit-Fpyqsl4f0fEJyBGxr9AuMN/pagina.html

Sono almeno due anni che ci si occupa - in base ai propri diversi ambiti e profili professionali e alla sviluppata sensibilità al problema - di fake news: giornalisti d'inchiesta come Jacopo Iacoboni, che su "la Stampa" sta raccogliendo da tempo dati (e relativi insulti) sul ruolo degli hacker russi e sulla relazione con movimenti italiani, o Federica Angeli, che su "la Repubblica" sta conducendo le sue inchieste su Ostia e periferie romane che sono costate minacce di morte a lei e ai suoi figli, minacce a causa delle quali è sotto scorta (e per questo ulteriormente vittima di attacchi fake); un debunker come David Puente, che ha portato alla luce molti legami oscuri nel mondo politico (i codici Google Adsense identici utilizzati da siti afferenti al movimento salviniano e pro MoVimento 5 stelle), riprendendo testate importanti come il Nyt; ricercatori come Walter Quattrociocchi, che è stato recentemente chiamato da Ca' Foscari, l'Università di Venezia, a dirigere il Laboratory of Data Science and Complexity; o, infine, come chi scrive, che coordina il gruppo di Analisi del Comportamento e Behavioral Economics presso l'Università Iulm e presso Iescum - Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano.


In queste ultime settimane, si sono aggiunti tre fattori rilevanti. La dura presa di posizione politica del segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, in chiusura della ottava edizione della Leopolda, che ha suscitato molte reazioni; qualche giorno prima era stato reso noto un rapporto dell'Atlantic Council, think tank statunitense, titolato "The Kremlin's Trojan Horses: Russian influence in Southern Europe", che analizza il ruolo di hackers supposti vicini al, o direttamente guidati dal, Cremlino nel tentativo di destabilizzare i paesi dell'area mediterranea; infine, le recentissime dichiarazioni di Joe Biden, Vice Presidente durante l'amministrazione Obama, in un articolo sulla rivista "Foreign Affairs" sulle azioni russe di sabotaggio per influenzare verso il NO il referendum costituzionale italiano dello scorso 4 dicembre e sui contatti sotterranei di M5s e Lega con agenzie governative russe.


Le reazioni sono state varie, ma possono essere ricondotte a due tipologie. Da una parte, c'è forte preoccupazione, visto quanto successo durante le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nel referendum Leave or stay in Inghilterra, in Spagna per l'indipendenza Catalana, e quanto sta emergendo in Italia sull'ultimo referendum. Dall'altra, ci sono tentativi, più o meno credibili, di sdrammatizzazione. Appartengono a quest'ultima tipologia per esempio l'articolo di Pier Luigi Battista, sul "Corriere della Sera" del 20 novembre, e le dichiarazioni del Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico, in un'intervista alla Stampa del 29 novembre scorso.

L'argomentazione che tende alla sdrammatizzazione sarebbe questa: niente di nuovo, le grandi potenze hanno sempre fatto "disinformazia", fa parte dello spionaggio, anche ai tempi della Roma imperiale si diffondevano notizie false e via di questo passo.Non mi iscrivo a questa scuola di pensiero, e - quindi - senza inutili isterismi, ma sulla base delle evidenze scientifiche, credo si debba esser preoccupati, e, alla luce dei motivi che vado a discutere, non minimizzare il fenomeno.

È vero, le fake news ci sono sempre state, anche ai tempi dell'antica Roma si diffondevano notizie false per screditare la parte avversa, basti pensare alla vicenda Cicerone-Catilina. Succedeva anche prima, nella democratica Grecia, e probabilmente prima ancora, se vogliamo ricomprendere fra le menzogne l'inganno acheo del Cavallo di Troia. C'è una falsità storica che riguarda da vicino il nostro paese, quella relativa alla Donazione di Costantino, un documento apocrifo (poi datato VIII o IX secolo) in base al quale la Chiesa giustificava la propria aspirazione al potere temporale: secondo questo documento, infatti, sarebbe stato lo stesso imperatore Costantino, trasferendo la sede dell'impero a Costantinopoli, a lasciare alla Chiesa il restante territorio dell'Impero Romano. Lorenzo Valla (1405-1457), umanista, può essere considerato il primo debunker, in quanto dimostrò la falsità di quel documento con argomentazioni storiche e filologiche, nel suo "De falso credita et ementita Constantini donatione".

So what? Vogliamo paragonare la velocità di diffusione dell'effetto calunnioso in un quartiere di Atene o Roma, con la velocità di Internet! Davvero, come dice David Puente, "affermare che il problema della disinformazione non esistasignifica non capire il nostro tempo", che continua, "Oppure essere parte del problema". Popolarmente si dice "fare il pesce in barile".Quindi, si tratta di analizzare approfonditamente il fenomeno se vogliamo capirne i meccanismi, per poi ipotizzare azioni di contrasto che non siano peggiori del male e i cui effetti siano valutabili scientificamente.

La tecnologia gioca di sicuro una parte importante. I social network ai tempi di Atene e Roma erano l'agorà o il foro, ora sono una ragnatela che connette e copre il mondo intero. Perfino la locuzione "diffusione virale" ormai è una metafora obsoleta, dato che le epidemie si diffondono più lentamente delle falsità. Non c'è neanche bisogno che un umano si metta materialmente a digitarle le menzogne, ci pensano i programmi automatici, i bot, che in pochi secondi inondano il mondo della stessa falsità. Ci sono evidenze chiarissime e inoppugnabili.

Infine, non dimentichiamo la delicatissima questione dei big data, l'oro informatico del terzo millennio. Ciascuno di noi lascia innumerevoli tracce di sé, dei propri movimenti, delle proprie preferenze, dei propri acquisti, delle proprie opinioni in campo politico e sociale. Sapere è potere. Bisogna ricordare, senza cadere in paranoia, che tutte queste tracce sono preziose e sono utilizzate, per diversi scopi, leciti e meno leciti.

Se entriamo più a fondo nel campo scientifico, ci sono alcune osservazioni da fare. Noi, organismi homo sapiens, abbiamo sviluppato una conoscenza e una tecnologia che, grazie al metodo scientifico, non ha paragoni in altri periodi storici, pur facendo le dovute comparazioni. Tuttavia, l'homo sapiens non è biologicamente molto diverso da quello di centomila anni fa. Le strutture fisiche, comprese quelle neuronali, sono sostanzialmente le stesse e svolgono la stessa funzione, aumentare la probabilità di sopravvivenza, anche se le condizioni ambientali sono cambiate.

Un esempio è la paura. I meccanismi della reazione di paura sono gli stessi di centomila anni fa, anche se gli oggetti della paura sono cambiati: ci immobilizziamo, scappiamo o lottiamo, sia che l'oggetto della paura sia una bestia feroce, un terrorista, parlare in pubblico e addirittura uscire di casa per andare in ufficio. Nelle situazioni di paura, il pensiero complesso si blocca, l'attenzione si restringe, non ci si pone domande, non si esplorano alternative. Non c'è tempo per pensare, bisogna solo muoversi: aggredire o fuggire. La prima reazione è simile a quella dei "leoni della tastiera", o "tigri della tuittesia", come li ho definiti una volta con linguaggio salgariano, la seconda è tipica di chi soffre di disturbo di panico o ansia sociale.

Per capire questa reazione, bisogna sapere che il nostro cervello non distingue tra minacce reali e minacce solo immaginate. Questa "confusione" è una caratteristica esclusiva dell'homo sapiens, che implica il ruolo di pensiero e linguaggio, strumenti potentissimi dell'evoluzione umana, che purtroppo portano a reazioni di stress diverse da quelle di altri animali: le zebre, che per sopravvivere devono correre più svelte della leonessa affamata, non vanno a dormire dicendosi "accidenti, anche domani dovrò correre", non perdono la fame o il sonno pensando a come sfuggire al leone, non si svegliano nel cuore della notte col pensiero didover cominciare a correre per sfuggire al leone, come spiega Robert M. Sapolsky, nel suo "Perché alle zebre non viene l'ulcera" (Libri in Tasca, 2011). Corrono e basta, sono fatte per quello. Gli uomini, invece, si fanno venire l'ulcera.

Gli uomini si fanno agganciare da pensieri ed emozioni, che, tecnicamente, nella terapia cognitivo comportamentale di terza generazione, sono chiamati "ami". La maggior parte delle fake news ingloba contenuti che hanno la funzione di ami, contenuti che svolgono molto bene questa funzione provocando le reazioni di paura e aggressività non solo dei tastieristi - che sono pur sempre una minoranza della popolazione - ma di interi gruppi sociali.

Questo meccanismo è stato messo in evidenza negli ultimi trent'anni dalla psicologia del comportamento e da una sua branca, la Behavioral Economics, una disciplina che ha avuto il riconoscimento di ben due Premi Nobel: Daniel Kahneman, nel 2002, e Richard Thaler nel 2017.

Daniel Kahneman per primo ha analizzato a fondo il ruolo di alcune abilità acquisite dal cervello nel corso dell'evoluzione, ovvero le euristiche. Le euristiche sono state utili per la sopravvivenza dell'uomo, permettendogli - in ambienti pericolosi - decisioni rapide, efficaci e conservative. Sono ancora utili, in quanto alleggeriscono la "fatica" del pensiero, nelle attività meno importanti e quotidiane: con il nostro corredo di euristiche, risparmiamo tempo e fatica nel prendere decisioni semplici o nel crearci un'opinione immediata delle situazioni nelle quali ci troviamo. Il lato nero delle euristiche è che ci rendono facile preda degli ami, cioè ci fanno reagire in modo rapido e automatico nel momenti in cui, invece, servirebbe un pensiero razionale, e producono distorsioni del giudizio ed errori decisionali sistematici, noti come bias.

Kahneman descrive due sistemi cognitivi, il sistema 1, produttore del pensiero veloce, e il sistema 2,produttore del pensiero lento. Sono metafore del funzionamento della nostra mente, non localizzazioni cerebrali. Il pensiero del primo sistema è inconsapevole, intuitivo, istantaneo, emozionale, sintetico, automatico, poco faticoso. Il pensiero del secondo sistema è consapevole, analitico, deduttivo. Chiede concentrazione e fatica, ed è sensibile alla cultura, si potenzia con essa.

Per evitare di farsi agganciare dagli ami bisognerebbe usare - in scelte come, per esempio, quelle di voto - il pensiero lento, quello sensibile alla cultura. Così non è per un gran numero di persone.

Quanto detto finora ha una valenza generale, per tutti gli esseri umani. Nel nostro paese, purtroppo, ha un'aggravante. È un tema che altre volte ho sottolineato: deteniamo il record mondiale, già di per sé poco invidiabile, di numero di auto e di cellulari/smartphone pro capite, e deteniamo anche un record, ancor meno invidiabile, che ci vede a fondo scala in Europa, quello di un infimo numero di libri e giornali letti. Nel 2016, dati Istat, sono state circa 33 milioni le persone con più di 6 anni che non hanno letto nemmeno un libro di carta in un anno, cioè il 57,6% della popolazione. Secondo l'Audipress, sono 18,5 milioni i lettori di quotidiani cartacei e online. Sono dati scoraggianti, tra i peggiori dell'Unione Europea. Se a questi numeri aggiungiamo la percentuale di analfabetismo funzionale, o di ritorno, che si aggira attorno al 45-50%, possiamo ben capire che c'è una massa di persone che è pronta ad abboccare a qualunque amo. Rimanendo in metafora, non serve neanche innescare gli ami, abboccano da soli.

Gianni Riotta - uno dei primi a occuparsi di fake news, già nel 2010, in un'inchiesta intitolata "Il lato oscuro della rete", pubblicato su Il Sole 24 ore, come ricordato pochi giorni orsono su "Democratica" - mette provocatoriamente in relazione questi dati sulla scarsa cultura degli italiani con le loro scelte politiche. Una tesi che, alla luce delle evidenze della scienza del comportamento, mi vede molto d'accordo: si comincia come "creduloni", poi - per effetto della polarizzazione e grazie alle camere ecoiche (echo chambers) - si diventa "credenti". I credenti, per definizione credono, indipendentemente dalle evidenze, o dalla mancanza di evidenze, che vengono liquidate con teorie post hoc e ad hoc: le pseudo-spiegazioni complottistiche.

Pertanto, che fare? La cultura non è l'antidoto alla proliferazione di fake news, non è un antibiotico specifico, però aiuta, potenziando il sistema immunitario culturale. Peraltro, non ha effetti collaterali negativi - anzi! - sulla società. La censura non solo non serve, ma sarebbe una soluzione peggiore del male, poiché ucciderebbe la democrazia della rete senza guarirne la malattia.

Altro è il concetto di responsabilità, a tutti i livelli, sia di chi fabbrica sia di chi diffonde falsità, menzogne, calunnie e diffamazioni. Si tratta di fare un salto di paradigma in questo campo, una sorta di responsabilità legale 2.0.

Inoltre, non bisogna dimenticare che i siti di fake news, oltre che di attenzione, sono anche dei generatori di guadagno, come dimostrano alcuni famosi siti nostrani: le conseguenze rinforzanti mantengono a lungo i comportamenti.

Dobbiamo puntare sull'educazione e sulle generazioni future, facendo tesoro dei molti errori fatti finora. Non è semplice, è costoso, richiede tanto tempo e competenze specifiche - in un'epoca in cui la competenza viene irrisa e calpestata - ma è l'unica strada. Ed è percorribile. 


CI HO SCIRTTO SOPRA UN LIBRO ANCH'IO...
LA VERITA', COS'E' LA VERITA'
 

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Il potere della (Dis)informazione nell’era della grande credulità

Ricerca: in Rete sempre più difficile distinguere tra notizie reali e menzogne
La pagina Facebook dell’inesistente senatore Cirenga

Pubblicato il 22/03/2014
Ultima modifica il 22/03/2014 alle ore 15:24
Tra le notizie recenti che, magari, vi sono sfuggite potrebbe esserci la legge approvata dal Senato su proposta del senatore Cirenga: 134 miliardi di euro per trovare un posto di lavoro ai parlamentari non rieletti. La Camera Alta della Repubblica ha stanziato la cifra con 257 voti a favore e 165 astensioni. Come capirete, in questa stagione di corruzione politica e sdegno popolare contro i privilegi della «casta» l’improvvida iniziativa del senatore Cirenga ha sollevato online, nel cosiddetto «popolo del web», un’ondata di proteste. In oltre 36 mila condividono l’appello per denunciare Cirenga, la sua pagina Facebook, con tanto di foto, è consultata con irritazione, peccato però che non ci si accorga - Google sta lì per questo - che nessun senatore si chiama Cirenga, che il sito del Senato non reca notizia della legge, che la somma dei voti è 422, mentre i senatori son 315 (più i senatori a vita). 134 miliardi di euro sono un decimo circa del Prodotto interno italiano, cassaforte eccessiva perfino per l’ingordigia dominante.  

  Perché in tanti abboccano a una notizia palesemente falsa, «una bufala» in gergo, come mai la Rete diffonde e discute sui siti un’ovvia finzione, come si informano online gli utenti e come distinguono tra testate con un controllo professionale dei testi e homepage dove invece ciascuno posta quel che gli aggrada senza controlli? 
Secondo una ricerca 2014 del World Economic Forum, curata dalla professoressa Farida Vis dell’Università di Sheffield, tra i dieci pericoli maggiori del nostro tempo c’è «la diffusione di false notizie», capaci di disorientare il dibattito politico dai temi reali, la Borsa e i mercati dall’economia concreta e sviare l’opinione pubblica su miti come l’Aids non legato all’Hiv, i vaccini che diffondono autismo, le scie chimiche degli aerei seminatrici di morte. Come dunque individuare le fonti inquinate dell’informazione e chi sono i cittadini più esposti alle fole? 
Se lo chiede un team di studiosi della Northeastern University di Boston, dell’Università di Lione e del Laboratory of Computational Social Science (CSSLab) del Centro Alti Studi Imt di Lucca (Delia Mocanu, Luca Rossi, Qian Zhang, Màrton Karsai, Walter Quattrociocchi) in una ricerca dal titolo rivelatore: «Collective Attention in the Age of (Mis)information», l’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione (http://goo.gl/6TxVfz).  

Dai risultati, purtroppo, si evince che l’attenzione pubblica è scarsa e la disinformazione potente al punto che spesso è considerata dai cittadini pari all’informazione classica. Per molti utenti della Rete il tempo dedicato ai miti e quello speso analizzando i fatti si equivalgono. Chi comincia a bazzicare siti dove complotti, false notizie e deformazioni vengono creati in serie, rapidamente si assuefà e perde senso critico. Lo studio conferma una delle caratteristiche più infide del nostro tempo online: su testate satiriche o forum aperti, i «trolls», utenti anonimi che diffondono battutacce, menzogne, grossolane e comiche esagerazioni, vengono spesso equivocati per fonti autorevoli e il loro teatrino scambiato per realtà.  

Un esempio recente, quando la voce dell’enciclopedia Wikipedia relativa al filosofo Manlio Sgalambro è ritoccata nelle ore della sua morte, rendendo l’austero studioso «autore di “Madama Doré” e “Fra Martino Campanaro”». All’assurda «trollata» credono persone comuni e autorevoli testate. 
Lo studio ha seguito oltre 2.300.000 persone su social media come Facebook durante la campagna elettorale politica italiana del 2013 e i risultati negano la tesi popolare dell’«intelligenza collettiva» che animerebbe la Rete, provando invece l’esistenza di un iceberg grigio di «credulità collettiva». I seguaci delle «teorie del complotto» credono che il mondo sia controllato da persone, o organizzazioni, onnipotenti, e interpretano ogni smentita alle proprie opinioni come una manovra occulta degli avversari.  

La ricerca prova come la dinamica sociale di Facebook, mischiando in modo apparentemente neutrale vero e falso, finisca per affermare le menzogne sulle verità. Gli attivisti online via Facebook evitano di confrontarsi con fonti che contraddicono le loro versioni, persuasi che spargano falsità per interessi spregevoli. Il dibattito langue, le versioni diverse non trovano una sintesi, i «trolls» spacciano sarcasmi per notizie. 
Preoccupazione suscita la par condicio online tra fonti prive di autenticità e siti professionali, chi cerca informazioni finisce per dedicare la stessa attenzione a bufale tipo «Senatore Cirenga» e alla vera riforma del Senato, spesa pubblica, governo.  

«Ex falso sequitur quodlibet» è massima della logica tradizionale, attribuita spesso al filosofo Duns Scoto, ma in realtà di autore ignoto: da premesse fasulle potete far derivare sia proposizioni «vere» che «false», con la terribile conseguenza di non potere distinguere bugie e realtà. Il web, dimostra la ricerca sulla (Dis)informazione, può trasformarsi in guazzabuglio «Quodlibet» alla Cirenga. E un cittadino, quando si avvia per la strada dei miti online, tende a perdersi nel labirinto delle bugie: chi è disposto a comprare la bubbola dell’Aids che non deriva dal virus Hiv, deduce poi che l’Aids è stato creato dal governo americano per decimare gli afro-americani, e così via via per l’11 settembre, il Club Bilderberg che controlla l’economia mondiale, le scie chimiche: date uno sguardo al web, edicole e talk show...
Twitter @riotta

martedì 12 dicembre 2017

AMAZON DISTRUGGE IL LAVORO

AMAZON DISTRUGGE PIÙ POSTI DI LAVORO DI QUANTI NE CREA? - UN'INCHIESTA DEL SITO “QZ.COM” HA ANALIZZATO IL NUMERO DI POSTI DI LAVORO CREATI DAL COLOSSO DI JEFF BEZOS NEGLI ULTIMI ANNI, PARAGONANDOLI A QUELLI CHE HA CANCELLATO E AL NUMERO DI ROBOT CHE GRADUALMENTE HA COMINCIATO AD IMPIEGARE - QUESTI SONO I RISULTATI...
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Amazon crea più posti di lavoro di quanti ne distrugge? La domanda se l'è posta il sito Qz.com che ha analizzato il numero di posti di lavoro creati dal colosso di Jeff Bezos negli ultimi anni, paragonandoli a quelli che ha cancellato, e soprattutto al numero di robot che gradualmente ha cominciato ad impiegare. Partendo dai dati, e cioè che Amazon cresce del 40% anno su anno. Era l'ottavo più grande datore di lavoro privato negli Stati Uniti alla fine del 2016. Il sito di ecommerce inoltre ha annunciato l'intenzione di costruire una seconda sede statunitense che impiegherà 50.000 dipendenti.
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"Ma la crescita di Amazon ha un prezzo", scrive Qz.com. "Supponendo che le attuali tendenze del settore continuino fino alla fine dell'anno, il numero di dipendenti nella vendita al dettaglio crolleranno dell'1% anno su anno". Sembra una piccola percentuale, ma si tratta di una perdita di lavoro pari secondo Qz.com a 170.000 persone l'anno.
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Quindi il numero di posti di lavoro creati da Amazon non saranno sufficienti a coprire le perdite nel resto del settore, tra concorrenti e piccoli negozi che non avranno più giro d'affari. Amazon inoltre ha già aggiunto 55.000 robot quest'anno e il suo tasso di crescita per numero di robot impiegati starebbe secondo Qz.com accelerando.

"La società ha dichiarato di avere 45.000 robot alla fine del 2016, ha aggiunto 35.000 robot entro la fine del primo semestre del 2017 e altri 20.000 nel terzo trimestre. Ne abbiamo ipotizzati altri 20.000 nel quarto trimestre per un totale di 75.000 nuovi robot nel 2017".
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A beneficiare della crescita di Amazon quindi sembrano sopratutto loro, i robot.
Anche se è difficile dimostrare una relazione di causa-effetto tra posti di lavoro creati e cancellati con i robot, "non è difficile vedere la correlazione tra un declino di 24.000 dipendenti umani e un aumento di 75.000 dipendenti robotici". Il crescente esercito di robot di Amazon può sembrare utile per le casse dell'azienda, conclude Qz.com, ma è anche molto efficace nel porre fine ai dipendenti del retail.
telecamera nascosta in un magazzino amazon inglese
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D'AGOSTINO ALLA SAPIENZA

venerdì 8 dicembre 2017

D'AGOSTINO ALLA SAPIENZA

ODIO CITARMI

MA IO LO SCRISSI AI TEMPI DELL'USCITA DEL MIO PRIMO VOLUME SU MARSHALL MCLUHAN, CHE UN GIORNO IL SITO DAGOSPIA E IL SUO AUTORE ROBERTO D'AGOSTINO SAREBBE STATO CITATO NELLE AULE UNIVERSITARIE....


DAGO IN CATTEDRA: LA LEZIONE ALLA SAPIENZA SU ‘RIVOLUZIONE DIGITALE: PARADISO O INFERNET?’ - ‘SIAMO DAVANTI ALLA PRIMA RIVOLUZIONE GLOBALE SENZA DISSENSO. MA PER GRAN PARTE DEGLI INTELLETTUALI DEL ‘900, ORFANI DEL LORO RUOLO DI LEADER, SIAMO DI FRONTE A UN “INFERNET”, COME TUONÒ UMBERTO ECO, CHE DÀ “DIRITTO DI PAROLA A LEGIONI DI IMBECILLI” - FAKE NEWS, WEINSTEIN, ZIZEK, VATTIMO - VIDEO

VIDEO - LA PRIMA PARTE DELLA LEZIONE DI DAGO AGLI STUDENTI DI LETTERE DELL'UNIVERSITA' LA SAPIENZA

La lectio di Dago alla Sapienza - Rivoluzione tecnologica: infernet o paradiso?

1. DAGO PROF DI DIGITALE ALLA SAPIENZA
R.S. per il ‘Corriere della Sera - Roma
roberto d agostino (2) roberto d agostino (2)
 
Il viaggio tra la fine del Medioevo analogico e il nuovo Rinascimento digitale, senza paletti e recinti, tra informazione, tecnologia e belle arti, ha una sua guida vulcanica e da sempre ossessivamente curiosa. Una e trina: il Roberto D' Agostino del sito Dagospia, quello del programma Dago in the Sky (in onda ogni martedì, alle 21.15, su Sky Arte HD), si è presentato in versione accademica alla facoltà di Lettere dell' Università La Sapienza di Roma, dove terrà una lezione dal titolo Rivoluzione digitale: Paradiso o Infernet?.
La sua domanda è: «Se deleghiamo i pensieri alle app o a un software diventiamo stupidi come criceti sulla ruota? Ci aspetta un nuovo mondo, una terra promessa di pace e speranza, o siamo destinati a essere travolti da un gigantesco esaurimento nervoso? Quel che è certo è che l' uomo, così come lo conosciamo, prossimamente non esisterà più. Nel bene e nel male, il ventunesimo secolo ha per protagonista la tecnologia, una nuova ideologia che niente ha da spartire con gli ideali».
2. RIVOLUZIONE DIGITALE - PARADISO O INFERNET?
Appunti per la lezione agli studenti della facoltà di Lettere della Sapienza, di Roberto D’Agostino
universita la sapienza universita la sapienza
 
In un mondo di 7 virgola 7 miliardi di esseri umani, per almeno tre Internet è il miglior strumento per cambiare il mondo che sia mai stato inventato. E il segreto del web è semplice. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, il mondo digitale include. Mi attiva perché è condivisibile in tempo reale con il mondo intero.
E malgrado i rischi e i pericoli, quella di internet è la prima rivoluzione globale senza dissenso. Piace a tutti: poveri, ricchi, bianchi e neri, uomini, donne e tipi intermedi. È una rivoluzione facilmente comprensibile: tutti hanno capito che Internet, attraverso computer e smartphone, è una protesi che ci regala dei superpoteri, che ci permettono non di essere se stessi bensì di creare se stessi.
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Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. I social ti fanno sentire parte di qualcosa – un evento, una situazione, una storia. E ci forniscono una filosofia di salvezza alla paura di correre verso il nulla: una identità digitale.
Grazie al Web, attraverso i social (Facebook, Youtube, Instagram, Twitter, etc) ci possiamo creare un'altra identità, un avatar, magari photoshoppato, quindi falso, ma appagante, da postare al resto del mondo che risponde con i like, gli emoji e i follower.
A causa di aspettative svalvolate, la vita è sempre stata una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
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L’enorme successo di Internet che ritroviamo in qualsiasi classe sociale, ha origine dalla sua capacità, attraverso i social network, di creare un mondo parallelo a quello reale. Tutti amano la Rete perché è diventata un sollievo, anche un placebo, a tale insoddisfazione che nessuna ideologia/religione, nel corso della storia, è riuscita a cancellare.
(Del resto, perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato praticamente tutto, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo affollato di avatar che portano il nome di Marte e Giove, Venere e Mercurio, al fine di quietare la propria insoddisfazione)
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I social fanno uscire la tua faccia dall’anonimato (Facebook), ti mettono in pista e ti fanno sentire unico e nello stesso tempo parte di una comunità, protagonista di un evento, di una situazione, di una storia. Il diario della vita in pubblico. Un modo di annotare il passaggio di cose e di emozioni. Mi serve una memoria istantanea, una specie di "pensiero visivo”, una pubblicità immediata di me stesso che spieghi agli altri non ciò che sono ma ciò che vorrei essere. Questo è il titolo perfetto del millennio digitale: Io sono la mia fiction. E Instagram, attraverso il selfie, è oggi la via più semplice per consegnare agli altri una immagine diversa di se stessi.
In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere, gli internauti devono fare affidamento sul proprio “marchio”. La smaterializzazione dell'immagine – la sua trasmigrazione dal reale al digitale, dalla carta al display - diventa l’arte di costruire il proprio Brand, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. Un processo che richiama alla memoria gli anni Ottanta della “Me Generation”, descritta da Tom Wolfe, e “La cultura del narcisismo” di Chris Lash.
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La creazione del proprio “brand” ha a che vedere con un'esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso. Da Andy Warhol che nel marzo 1968 dettò la celebre frase “Saremo in futuro tutto famosi per 15 minuti”, siamo passati al ragazzino che vuole essere famoso per 15 amici.
Imploderà l’impero delle app? No, perché la tendenza generale, alla faccia di haters e di trolls, è una spinta piuttosto forte al “pensiero positivo”. C’è una frase di uno youtuber americano con un bottino di 50 milioni di follower che sintetizza questa modalità. Intervistato fa una dichiarazione che sorprende il giornalista: “Io non voglio essere me stesso. Io voglio essere la pizza”. Prego? La pizza? “Sì, perché tutti amano la pizza. Ed io voglio essere amato da tutti’’.
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Ecco. Noi vogliamo solo essere amati, pensiamo che ce lo meritiamo perché ci consideriamo unici. In questa frase, allo stesso tempo geniale e cinica, c’è l’essenza della ‘’filosofia’’, se così possiamo dire, digitale. Far parte di comunità in cui gli sms hanno preso il posto delle molotov e twitter al posto delle pietre. Non è un caso che Facebook ha sempre rifiutato di introdurre accanto a “like” il segno del “non mi piace”.
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Ed è anche per questo che i giornali non vendono più. I quotidiani appartengono filosoficamente al secolo ideologico, quindi devono imporre una linea al lettore, hanno la “verità” in tasca, salgono in cattedra e sparano opinioni che mi dicono che sono un incivile perché seguo il Grande Fratello Vip, un ignorante perché non mi sintonizzo sui talk politici, che sto sbagliando tutto della mia vita perché mi diverto con Malgioglio... Bene: ho speso un euro e mezzo, perché mi devi trattare a pesci in faccia?
Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione, anche in politica. Barack Obama nel 2008 per sua stessa ammissione non avrebbe vinto la sfida elettorale se non avesse avuto un formidabile team di gestione dei social network, lui riuscì a mobilitare 18 milioni di giovani per fare la differenza contro lo sfidante McCain, grazie all’uso di Facebook, aggregando le persone su Facebook.
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Il social inventato da Zuckeberg sta per toccare i due miliardi di adesioni sull’intero pianeta e dunque abbiamo una collettività transnazionale che risponde ad un proprio linguaggio. La prima cosa che si fa appena si entra in un social è quella di rovesciare in pubblico la nostra vita privata. E lo si fa con piacere. Perché noi siamo ciò che raccontiamo agli altri, dall’’’Odissea’’ di Omero a “Mille e una notte” passando per il “Decamerone” di Boccaccio, ognuno di noi è una costruzione letteraria. Io sono la mia fiction. Per questo diffondiamo sui social la nostra autobiografia, testo e foto e video, edulcorata e corretta, ovviamente. Vogliamo i like, vogliamo i followers, i cuoricini: sono loro che ci danno un’identità sociale.
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Per gran parte degli intellettuali del ‘900, invece, orfani del loro ruolo di leader, Internet è piuttosto un “infernet”, un inferno, come tuonò Umberto Eco, che dà “diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.
E scatta l’allarme rosso: Internet è un paradiso o un inferno? Se deleghiamo i pensieri alle app o a un software diventiamo stupidi come criceti sulla ruota? Ci aspetta un "nuovo mondo", terra promessa di pace e speranza, oppure siamo destinati ad essere travolti da un gigantesco esaurimento nervoso? Ciò che la Silicon Valley vuole costruire è un paradiso per i robot?
Davvero con Internet, la Storia, con la esse maiuscola, è finita tra le fiamme dell’inferno?
L’anno che cambiò la faccia del mondo e il percorso della storia fu il 1989. Viene giù il Muro di Berlino, da una parte. Dall’altra, Tim Berners-Lee inventa la Rete, il Web, Internet. Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante, tempestata di clic, di siti, di immagini. E nulla fu come prima. In tutti i campi, dal lavoro all’amore, dalla cultura alla politica.
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Siamo entrati in un nuovo rinascimento che sta cambiando tutto, a partire dal nostro modo di essere. Come fu l’arrivo dei caratteri stampa mobile di Gutenberg che mise fine al Medioevo e apri’ le porte a Leonardo e Michelangelo. In questo passaggio tra due epoche, dall’analogico al digitale, viviamo un senso di caos per la decadenza del nostro vecchio sistema.
E se proviamo a puntare il nostro sguardo verso il futuro, vediamo questo orizzonte di polvere, è la polvere che si alza quando crolla tutto e finisce un’epoca. Questa polvere poi lentamente si deporrà e si vedrà qualche cosa di nuovo. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, del resto, durò un secolo.
La tecnologia ha cambiato la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’800 e nel 900. L’arrivo del treno fu una grande rivoluzione, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione e adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quella che la nostra immaginazione può tentare di descrivere.
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Stiamo andando verso un mondo completamente nuovo dove i protagonisti saranno i robot. Grazie all’intelligenza artificiale, i computer ci battono a scacchi, guidano le macchine, fanno la pizza e nella prossima società cibernetica, preparatevi: avremo computer nel cervello e le macchine saranno più intelligenti degli esseri umani.
Un chip, impiantato sotto la pelle, funzionerà per timbrare il cartellino, aprire porte, azionare il pc, fare la spesa. Entro il 2029 sarà realtà, la cosiddetta ‘singolarità tecnologica’, cioè quando i computer, tramite software e robot, avranno un livello umano di intelligenza, potranno evolversi e migliorarsi da soli.
Siamo prigionieri di un algoritmo, ostaggi di un software, sempre a caccia di una connessione wi-fi. Una sfida che molti considerano un incubo.
Non c’è dubbio che ogni svolta tecnologica comporta dei grandi pericoli, dei grandi rischi.
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La tecnologia può falcidiare e distruggere il mercato del lavoro, produrre milioni di disoccupati e quindi fomentare scontento malumori, rivoluzioni proteste, violenze, un vero e proprio terremoto sociale.
Non c’è nessun dubbio che questo è il rischio che noi abbiamo davanti, la società dei robot che è alle nostre porte e che sta già arrivando annienta e distrugge progressivamente il ruolo degli esseri umani nel mondo del lavoro, quindi la sfida è rispondere a questo rischio, tentando di ripensare il lavoro, il tempo libero, l’equilibrio fra macchine ed esseri umani. È uno dei passaggi più difficili, ma non abbiamo alternativa, che passarci attraverso e inventare una nuova forma di convivenza.
studentesse studentesse
Il vero punto debole è che le tecnologie creano una fascia di esseri umani che non è in grado di adoperarle, e che viene quindi emarginata, spazzata via, distrutta, lacerata, trasformata in prodotto di scarto.
Sul piano dei rischi c’è il trasferimento della socializzazione dalla realtà reale a quella virtuale. Noi lo vediamo tutti i giorni, noi viviamo in una grande stagione di proteste e appena può la gente va a votare e vota contro, chiunque sia e chiunque rappresenti l’establishment, ma nelle università non ci sono più movimenti di protesta, i sindacati si sono indeboliti, ogni tipo di associazionismo è in calo.
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Come è possibile che non ci siano cortei di protesta nelle grandi città dell’occidente se viviamo la stagione della protesta? Perché la protesta si è trasferita da forma aggregata associata nella realtà reale, in forme di amici o gruppi sui social network. Questo porta ad una desocializzazione degli individui che secondo alcuni studiosi del comportamento comporta molti rischi.
Soprattutto sul piano dello sviluppo delle identità. Completamente scollegate dalla realtà. Ovvero uno pensa di essere qualcosa solo e solamente perché il social network ci rappresenta in quella maniera. Questo è il rischio. Qual è invece l’opportunità? L’opportunità è che grazie al social network uno riesce ad entrare in contatto con persone che possono avere simpatie ed interessi comuni anche se vive in un’altra latitudine.
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In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini, nei villaggi africani, nei villaggi del Bangladesh, in un’isola sperduta, chiunque può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. Basta connettersi con la rete e c’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre qualcosa che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
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L'uomo è la misura di tutte le cose, queste erano le parole d'ordine, le leggiamo nei libri di testo, nei libri di lettura. E che cos'altro è internet, la rete, se non questo? L'affrancamento del singolo dalla dittatura o comunque dai condizionamenti di una lettura imposta, di una lettura a priori, di una lettura che viene fornita da altri anche semplicemente dal punto di vista delle notizie.
La tecnologia è una nuova ideologia che, a differenza del capitalismo o del socialismo, non ha niente a che vedere con un ideale o con un programma di governo. Ecco uno strumento, un software, un algoritmo velocissimo che deride la lentezza dei nostri pensieri. Nell’Impero Digitale, la storia non è più "orientata" verso un “pensiero unico” ma è multimediale, ipermediale, transmediale.
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Il nostro è un mondo di modernità ad alta velocità, nel quale il fatto che le cose cambino non ha più bisogno di essere spiegato dal Censis o dall’Istat. Piuttosto sarebbe meglio riprendere in mano il “Pensiero debole” del filosofo Gianni Vattimo, saggio fondamentale del postmoderno, pubblicato da Feltrinelli nel 1983, un saggio che si inalbera sulle macerie ideologiche degli anni ’70, in contrapposizione alle varie forme di pensiero forte dell’Otto-Novecento - in primis il marxismo,.
Con Internet il pensiero debole diventa fortissimo. Il Web, come il Pensiero Debole, si presenta in maniera esplicita come una forma di nichilismo, vocabolo che Vattimo considera "una parola chiave della nostra cultura". Con questo termine, che Vattimo usa in maniera positiva e propositiva, egli intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche per indicare l'inevitabile decadenza della cultura occidentale e dei suoi valori, "l'uomo rotola via dal centro verso la X", ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l'uomo postmoderno in seguito alla caduta delle ideologie e delle verità stabili.
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E il tempo impiegato a scavare per trovare la “verità” è tempo perso perchè il mattino dopo un nuovo futuro è già qui, e quella “verità” non serve a nulla. E’ la tecnologia stessa a includere il cambiamento che per decenni è stato sinonimo di progresso. Le cose via via miglioravano. La storia aveva una direzione. Oggi il discorso è più complesso. La linearità delle cose - l'esistenza cioè di un inizio e di una fine - è un'invenzione occidentale.
La Rete permette a tutti noi di navigare come su una tavola da surf, cavalcando le onde ed evitando i venti contrari, e permettendo di restare attaccati alle correnti dell’attualità. Con un colpo di mouse, abbiamo a disposizione un'enorme fonte di informazione, un'infinita memoria generale. Nell'era dei big data, le risposte dipendono unicamente dalle domande.
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E le famigerate fake news dove le mettiamo? Le mettiamo in quel posto perchè i grandi mezzi di comunicazione sono le vere, grandi fucine di balle spaziali. Da sempre. È li che vendono preparate, cucinate, diffuse o nascoste, a seconda degli interessi dei proprietari dei giornali. L’informazione in Rete può essere vera o falsa, o entrambe le cose, ma in Rete è impossibile sostenere una menzogna per lungo tempo.
Osserviamo il caso Weinstein: Il New York Times aveva tutti i documenti necessari a pubblicare l’inchiesta dieci anni fa. Non è finita in pagina a suo tempo perché Weinstein investiva in pubblicità e finanziava la politica. Convenienza e pressioni hanno nascosto il segreto di pulcinella.
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In un saggio del filosofo Zizek si racconta di una maledizione cinese. Se si odia veramente qualcuno, lo si maledice così: "Che tu possa vivere in tempi interessanti!". Storicamente i “tempi interessanti” sono stati periodi di mutamenti, di guerre e lotte per il potere. Oggi, con la rivoluzione innescata dalla tecnologia e da internet stiamo chiaramente dentro a una nuova epoca di tempi interessanti. Quindi inquietanti, conflittuali, difficili. Ma eccitanti. Perché la nuova fonte di potere non è il denaro nelle mani di pochi, ma l'informazione nelle mani di molti.
Quello che è certo è che l’uomo, così come lo conosciamo, prossimamente non esisterà più. E non c’è dubbio che il sentimento di gran lunga più diffuso oggi sulla terra non è la paura del futuro. E' il timore di quello che avverrà domani mattina.